Fin dagli inizi della nostra vita noi impariamo a vivere le nostre relazioni interpersonali, osservando e imitando il comportamento altrui. Ogni volta che osserviamo qualcuno eseguire un’azione, oltre all’attivazione delle aree visive, si ha una concomitante attivazione delle aree del nostro cervello motorio che risultano ugualmente attive durante l’esecuzione di quelle stesse azioni.
Sebbene noi non riproduciamo effettivamente le azioni osservate, tuttavia il nostro sistema motorio si attiva proprio come se noi ripetessimo esattamente la sequenza di azioni che osserviamo.
Vedere un’azione significa simularla.
In questo modo siamo in grado di capire il significato delle esperienze altrui, non perchè qualcuno ce la spiega, ma perchè vi è una comprensione interna, proveniente cioè dall’interno del nostro corpo. Grazie ad un meccanismo particolare chiamato “simulazione”, l’altro è vissuto come un altro sè.
Esistono due diverse teorie della simulazione: la “simulazione standard” e la “simulazione incarnata”.
Nella “simulazione standard” il soggetto si mette volontariamente nei panni dell’altro, cerca di vedere le cose dalla sua prospettiva, ricostruendo all’interno di se stesso, anche attraverso l’immaginazione, gli stessi stati mentali (Gordon, 1986, 1995, 1996, 2005; Gordon e Cruz, 2004; Harris, 1989; Goldman, 1989, 1992, 1993, 2000, 2005).
Nella “simulazione incarnata” invece non vi è assolutamente alcun tipo di inferenza o introspezione, ma semplicemente una riproduzione automatica, inconscia e pre-riflessiva, degli stati mentali dell’altro (Gallese, 2003, 2005, 2006).
Le intenzioni dell’altro sono insomma comprese in modo diretto in quanto vengono condivise primariamente a livello dei nostri neuroni. La simulazione incarnata permette di afferrare in modo immediato il senso delle azioni e delle emozioni dell’altro.
Mentre assistiamo al comportamento intenzionale degli altri, noi proviamo un particolare stato fenomenico detto di “consonanza intenzionale” (Gallese, 2006). Questo stato fenomenico genera un senso specifico di familiarità con gli altri individui, prodotta dal sovrapporsi delle intenzioni altrui in quelle dell’osservatore. Ciò costituisce un’importante componente di cosa significa “empatizzare” con gli altri (Preston e De Waal, 2002).
Perciò l’empatia può essere considerata proprio come la capacità di stabilire un legame affettivo interpersonale dotato di significato tra due individui diversi (Gallese, 2003). Essa comporta la capacità di provare ciò che gli altri provano, ed essere contemporaneamente in grado di saper attribuire queste esperienze anche agli altri e non solo a se stessi. Se una persona a noi cara ha subito un lutto, ad esempio, noi sapremo che cosa potrà provare in virtù dell’esperienza che noi stessi abbiamo vissuto: abbiamo imparato a riconoscere negli altri la capacità di poter provare dolore e tristezza in una situazione di questo tipo. Dunque anche noi riusciamo a provare quella stessa emozione, anche se non direttamente interessati, e sapere che cosa significa.
L’individuo possiede una capacità innata e preprogrammata ad internalizzare, incorporare, assimilare e imitare lo stato di un’altra persona.
E’ proprio dal corretto funzionamento di questo meccanismo che dipenderà la futura sostenibilità e duratura nel tempo di una qualsiasi relazione tra paziente e caregiver, tra madre e bambino, tra amici, tra partner, eterosessuali ed omosessuali che siano, e tra qualsiasi relazione esistente nell’ambito della natura umana (e talvolta non solo); all’interno dei quali il concetto di empatia risulta essenziale.
Dott.ssa Martina Turini – Livorno, 29.10.2017