Tutto ciò che sappiamo sul modo in cui le funzioni del linguaggio sono organizzate nel cervello umano l’abbiamo appreso dalle condizioni morbose o da circostanze atipiche.
Già in Egitto ed in Grecia, infatti, si era a conoscenza che lesioni cerebrali sinistre interferivano regolarmente con le funzioni linguistiche.
Il fatto che i bambini potessero manifestare in qualche modo la comprensione del parlato quando ancora non potevano esprimersi adeguatamente ha suggerito che gli aspetti ricettivi (decoding) ed espressivi (encoding) del linguaggio potessero essere tra loro separati.
A partire dagli anni ’70 la fonte di informazioni più cospicua era rappresentata proprio dall’esame del cervello post-mortem di pazienti afasici che avevano subito danni cerebrali e che erano stati valutati dal punto di vista neuropsicologico (Geschwind, 1972). Da questi studi è emerso un modello di interconnessioni fra le diverse zone del linguaggio e delle funzioni delle singole aree cerebrali coinvolte, cosicché nel 1861 il nome dello studioso francese Paul Broca e nel 1874 quello del giovane assistente del reparto neurologico di Bratislava Carl Wernicke vennero associati alle aree cerebrali implicate nei disturbi del linguaggio di tipo espressivo e sensoriale, rispettivamente.
Nonostante la neuropsicologia sia nata con lo studio delle alterazioni della produzione e comprensione linguistica in pazienti con lesioni cerebrali, ad oggi, per comprendere un disturbo linguistico, non si parla più di una correlazione diretta tra una funzione ed una specifica area cerebrale (localizzazionismo), ma si usa il concetto di sistema funzionale secondo cui una funzione sarebbe il risultato delle attività di regioni cerebrali diverse (corticali e sottocorticali) connesse tra loro in complesse reti neuronali. Le diverse forme di deficit linguistici possono essere ricondotte a disfunzioni di processi altamente distribuiti nel nostro cervello, che producono una serie di sintomi e segni specifici per ogni disturbo linguistico.
Molti modelli sono stati proposti per spiegare i disturbi del linguaggio ed il suo funzionamento in condizioni normali, a partire dal modello di Wernicke-Lichtheim (1874; 1885), che ha posto le basi della teoria afasiologica classica, lasciando però alcune questioni teoriche irrisolte. Nei decenni che seguirono la sua formulazione, la poliedricità delle afasie e dei loro sintomi ha determinato l’evoluzione di numerosi modelli che descrivono procedure separate per l’elaborazione di materiale lessicale e sublessicale, e perciò l’esistenza di un più ampio numero di aree e di interconnessioni cerebrali implicate nei disturbi fasici.
I principali modelli cognitivistici psicolinguistici sono stati quelli legati al linguaggio scritto. Le teorie classiche sui deficit del linguaggio scritto non erano in grado di dar conto di alcuni dei fenomeni dei disturbi di lettura e scrittura (Marshall e Newcombe, 1973). Anche le procedure diagnostiche non consideravano affatto le variabili ortografiche e psicolinguistiche. Per questo motivo fino al termine degli anni ’60 i disturbi acquisiti della scrittura sono stati descritti facendo riferimento essenzialmente ad una tassonomia prevalentemente anatomo-funzionale che specificava gli aspetti della produzione scritta (Vallar e Papagno, 2007).
Successivamente oltre ai modelli cognitivistici, in base ai quali l’informazione è elaborata in modo sequenziale, nel corso degli anni ’80, ed in particolare a partire dalla pubblicazione di Rumelhart e McClelland (1986), si sono sviluppati i modelli cosiddetti connessionistici. Prendendo le mosse dalle ricerche di cibernetica e dagli studi pionieristici sui neuroni artificiali, i connessionisti, hanno messo in discussione l’adeguatezza dei modelli computazionali di tipo sequenziale a favore di un’elaborazione neurale di tipo parallelo, contribuendo ad una più globale comprensione del funzionamento normale e patologico del linguaggio, essendo quest’ultimo un sistema molto complesso, basato su diversi livelli di conoscenza (fonetico, semantico-lessicale, sintattico, pragmatico) che interagiscono in maniera non lineare tra loro.
Gran parte dei modelli sull’apprendimento del linguaggio si basa sul connessionismo, perché tale approccio permette di simulare l’organizzazione e l’apprendimento di capacità linguistiche e cognitive a partire da processi subsimbolici, ispirandosi al funzionamento vero e proprio del cervello.
Nell’ultimo decennio si è diffuso un crescente interesse anche verso lo sviluppo di modelli computazionali per l’evoluzione delle abilità linguistiche, grazie all’uso di algoritmi genetici mediante i quali è possibile studiare processi adattivi ed evoluzionisti (Cangelosi e Turner, 2002).
Inoltre, più recentemente, lo sviluppo di alcuni modelli connessionistici concernenti tre principali domini linguistici (memoria semantica, conoscenza delle classi grammaticali e lettura di parole) ha ingenerato un’interazione reciproca tra ricerca teorica ed empirica.
Interessante è notare che, al contrario del tradizionale modello di lettura “a due vie” di Coltheart (1981), il modello connessionistico “a triangolo” (Harm e Seidenberg, 1999) asserisce che la lettura di parole sia supportata da continue interazioni cooperative e competitive tra rappresentazioni ortografiche, fonologiche e semantiche (spesso designate come i tre punti fondamentali del triangolo). Ogni tipo d’informazione viene processato da unità di gruppi neurali che, attraverso ulteriori unità “nascoste”, si interconnettono mutualmente tra loro: i network neurali imparano a trasferire dalla forma ortografica a quella fonologica sia le parole irregolari sia quelle regolari, oltre a generalizzare adeguatamente le pseudoparole (Watson et al., 2012). Il modello, pertanto, fornisce una spiegazione congrua anche al perché la pronuncia di parole a bassa frequenza d’uso in pazienti dislessici dovrebbe essere connessa alla gravità della compromissione semantica.